lunedì 29 dicembre 2008

Madagascar 2



Oltre i pinguini niente

Chi si aspetta di vedere e divertirsi come nel primo episodio si sbaglia di grosso; intendiamoci, non sono un fan di Madagascar che paragonato non solo ai film Pixar, ma anche ai film animati della 20th Century Fox (vedi L'era glaciale 1 e 2) fa rabbrividire. Il primo era carino nella storia innovativa e alquanto bizzarra di un gruppo di animali che dallo zoo di New York fugge e sbarca involontariamente nell' isola del Madagascar, costretti, quindi, a far fronte ad una vita ben più difficile di quella passata in cattività. Non mancavano scene esilaranti e geniali, una su tutte, l'arrivo dei pinguini in antartide e il loro disappunto per la desolazione della terra ghiacciata.

Il secondo episodio annoia nella storia, che parafrase, sfiorando il blasfemo, il classico Walt Disney "Il Re Leone", e rivela una vuotezza dei 4 personaggi protagonisti, poco divertenti e poco graffianti. La debolezza dei 4 finisce per esaltare le figure di secondo piano ben più riuscite come l'ippopotamo "Moto Moto",  la vecchietta, i pinguini e le scimmie già presenti nel primo e infine il leone cattivo che sembra una versione cicciotta di Mufasa, ma comunque simpatico.  Su quest'ultimi sono state ritagliate le scene divertenti, mentre ai protagonisti sono state dedicate le situazioni moraliste (la zebra Martyn che si confonde nel branco, il leone Alex che deve dimostrare di essere all'altezza del padre..) o penose scene come quella della giraffa Melman che deve trovare il modo per dichiararsi a Gloria, l'ippopotama. Risultato, i quattro amici finiscono per annoiare; il tutto è peggiorato da un doppiaggio che non regge quello inglese con star del calibro di Ben Stiller e David Schwimmer.

La seconda avventura dei 4 giovani amici ricalca quella del primo, cercando di modificare il minimo possibile gli ingredienti che gli hanno dato il successo inatteso. Dal Madagascar gli eroi vengono dirottati in Africa, dove la vita selvaggia, questa volta incosciamente familiare perchè luoghi di origine,  crea smarrimenti, ma anche felicità immediata per l'incontro con animali a loro affini. Da questo momento la storia si trasforma in un dramma parodistico della favola disneyana non particolarmente riuscito visto che la risoluzione della trama termina con un finale che non sarebbe neanche degno di essere raccontato nei cinepanettoni di De Sica e di Boldi.

Come al solito si esce delusi; la magia, la favola e la simpatia che traspare dai film animati Pixar (anche quelli meno riusicti come "A Bugs Life") marca ancora di più la distanza con i concorrenti, specialmente la Dreamworks che fatica ad inventarsi un genere capace di reggere il confronto. Il filone iniziato con Shrek, dimostra la lampante mancanza di immaginazione e di sogno dei creatori che si limitano a creare scene divertenti facendo parodie di cartoni, film o star hollywodiane producendo prodotti scadenti tanto quanto film come "Hot Movie" e tutti i film parodisitci che sono seguiti a "Scary Movie". Sarebbe il caso che la Dreamworks smettesse di cercar di far ridere e provare a far sognare, perchè è questo che i bambini vogliono.

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lunedì 22 dicembre 2008

David W. Griffith - Gli albori del cinema


Si sta chiudendo l'anno che ha celebrato il 60esimo anniversario dalla scomparsa del regista David W. Griffith; la cosa che piu' mi ha impressionato e' stata la totale indifferenza per questo grande artista, ormai quasi sconosciuto al grande pubblico.

Quello che molti probabilmente non sanno e' che lui a partire dai primi anni del '900 ha fondato il cinema blockbuster e il cinema narrativo, creando veri e propri capolavori di complessita' come "Intollerance" e "La Nascita di una nazione", quest'ultimo costantemente incluso nelle classifiche dei 100 film piu' belli della storia.

David Lewely Wark Griffith e' stato il primo artista cinematografico a credere nel lungometraggio come nuova forma cinematografica grazie alla sua maggiore capacita' di creare un coinvolgimento prolungato dello spettatore; nel 1915, insieme a Mack Sennet, fonda la Triangle con cui gira il capolavoro epico "Nascita di una nazione" (160 minuti).

Il film e' la dimostrazione di una nuova tendenza nel mondo cinematografico: risulta infatti essere la prima opera con una struttura narrativa preponderante. Mentre, in quegli anni, c'era la tendenza a evidenziare il girato e le immagini catturate, il film di Griffith sembra far prevalere il filo narrativo e la storia raccontata. 
"Nascita di una nazione" e' la storia romanzata di alcuni passi importanti della guerra di secessione americana spettacolarmente resi con incredibile velocita' e dinamismo e inquadrature molto brevi che conferivano al film nella sua totalita' dinamismo, forza e passione nei personaggi e una violenza visiva che era ancora sconosciuta.
Il film ebbe un successo senza pari (10 milioni di dollari incassati; film muto piu' redditizio della storia), ma venne accompagnato da innumerevoli fattori negativi, come un indiretto inneggiamento al Ku Klux Klan e i violenti scontri che esso causo' in molte citta' americane che spaventarono il regista stesso.

Questi furono i motivi alla base della pianificazione del suo ben piu' ambizioso film "Intollerance" dove egli cercho' (invano) di crearsi immagine di pacifista denunciando qualsiasi forma di guerra e violenza verso il prossimo. 
Siamo nel 1916 e mentre per il suo primo lungometraggio Griffith ha cercato di stressare al massimo la componente narrativa della sua storia, in "Intollerance" il filone temporale viene sfaldato dal cosidetto montaggio parallelo nel quale lo spettatore e' immerso in quattro storie diverse tra loro (per luoghi e tempi) con in comune il sentimento di pace e armonia. In questo film il regista era molto piu' interessato al messaggio che voleva comunicare piu' che alla coerenza narrativa delle storie finendo per sacrifiche quel che di buono aveva costruito.
Il film durava, nella sua versione originale, ben 197 minuti e con il piu' alto budget mai speso  nella storia (considerando l'inflazione). Il pubblico non colse il messaggio moralista di Griffith e la critica lo stronco' creando il piu' grande flop  che fece fallire la Triangle e rovino' la carriera del regista.

Il sistema di lavoro di Griffith fu la base per la nascita della figura professionale del regista; fino ad allora erano varie le persone che lavoravano nel team di produzione che potevano contendere la paternita' del prodotto finale (specialmente il cameramen, colui che filmava in prima persona). Infatti, il regista si trovo' spesso a combattere con il suo "cinematographer" Bitzer il quale era abituato dalle consuetudini del tempo a rivendicare la proprieta' sul film. Griffith cambio' il corso della storia eliminando una figura stabile della sala cinematografica: il narratore. Per questo motivo che veniva considerato come un narratore invisibile il quale, attraverso la meticolosita' della struttura narrativa, conduceva e faceva immergere lo spettatore nella storia creando per la prima volta il fenomeno di "involvement" che adesso e' dato per scontato.

Griffith fu una personalita' controversa, un genio narrativo da una parte, una vittima del bigottismo di inizio '900 dall'altra: venne infatti ritenuto l'artefice dei movimenti neo-razzisti nati negli anni successivi e ritenuto responsabile degli scontri e violenze avvenute durante quel periodo nelle cittadine americane. La verita' e' che in un modo o nell'altro ha cambiato il modo di fare cinema non tanto nelle tecniche (montaggio narrativo, montaggio parallelo, lungometraggio...) quanto nel modo di approcciare il prodotto cinematografico. Il film non doveva piu' semplicemente rappresentare ma anche significare coinvolgendo lo spettatore attivamente anziche' considerandolo un semplice medium dove proiettare virtuosismi estetici.


giovedì 18 dicembre 2008

Animator VS Animation

Chi ha detto che il digitale puo' fare male al cinema?

La crisi d’identità del cinema colpisce anche i termini e le categorie utilizzate in passato dalla teoria cinematografica. Il teorico francese Christian Metz scrisse nel 1970 che "la maggior parte dei film realizzati al giorno d’oggi - siano belli o brutti, originali o no, commerciali o no - hanno in comune la caratteristica di raccontare storie; in questo senso appartengono tutti allo stesso, unico genere, o meglio, a una specie di ‘surgenere’". Identificando il cinema fiction come un surgenere del cinema del ventesimo secolo, Metz non si è preoccupato di menzionare un’altra caratteristica, data per scontata per molti anni: i film fiction si basano sull’azione reale, ovvero consistono soprattutto in fotogrammi non ritoccati che registrano eventi reali accaduti nello spazio fisico reale. Oggi, nell’era della simulazione computerizzata e dell’elaborazione digitale, quelle caratteristiche diventano particolarmente importanti per definire la specificità del cinema del ventesimo secolo. Dal punto di vista di uno storico del cinema del futuro, le differenze tra il cinema classico hollywoodiano, i film d’autore europei e quelli d’avanguardia (eccetto i film astratti) appariranno meno rilevanti: tutte quelle forme cinematografiche sfruttano la registrazione fotografica del reale. (http://www.trax.it/lev_manovich.htm)

Anche per Andrej Tarkovskij - pittore cinematografico per eccellenza - l’identità del cinema si inscrive nella capacità di registrare il reale. Durante un dibattito tenutosi a Mosca negli anni Sessanta a Tarkovskij fu chiesto se fosse interessato a realizzare film astratti. Rispose che non esiste un cinema astratto. L’espressione base del linguaggio cinematografico è l’apertura dell’otturatore, con la pellicola che inizia a srotolarsi, registrando ciò che si manifesta davanti all’obiettivo. Per Tarkovskij quindi il cinema astratto è di fatto impossibile.

Ma cosa succede all’identità indicale del cinema quando è possibile generare delle scene realistiche con un sistema di animazione computerizzato; oppure modificare fotogrammi o intere sequenze con l’ausilio di un programma di disegno digitalo; o ancora, tagliare, distorcere, allargare e montare immagini digitalizzate così da ottenere una assoluta credibilità fotografica, senza aver di fatto filmato nulla?

Fino a poco tempo fa gli studios erano gli unici a potersi permettere gli strumenti digitali e i tecnici specializzati. Ma la diffusione dei mezzi digitali non coinvolge solo Hollywood, ma l’intera concezione della produzione cinematografica. I processi della creazione di un film si rinnovano mano a mano che i mezzi digitali sostituiscono quelli tradizionali.

La ripresa dal vivo è ormai una semplice materia grezza destinata all’elaborazione manuale: animazione, inserimento di immagini in 3D completamente costruite al computer, pittura ecc. Le immagini finali risultano costruite manualmente partendo da diversi elementi, per lo più creati dal nulla e modificati a mano.

Perciò il cinema digitale è una forma particolare di animazione che utilizza la ripresa dal vivo come una tra le varie materie prime disponibili. E pertanto rientra in quella breve storia delle immagini in movimento che abbiamo tracciato nel paragrafo precedente La costruzione manuale e l’animazione hanno dato vita al cinema e sono state relegate alla periferia - ma oggi, grazie agli effetti speciali, tornano a essere le fondamenta dell’industria cinematografica. La storia delle immagini in movimento torna sui propri passi con un movimento circolare.

Cosa vuol dire tutto questo? La democrazia del digitale, ovvero la paritaria accessibilita' alle tecnologia per lo sviluppo di sistemi 3D ha enormemente aumnetato la qualita' e la quantita' di video girati da artisti piu' o meno conosciuti. La creativita' nascosta dietro e' immensa, come nel caso del video cortometraggio "Animator vs Animation" e "Animator vs Animation II" visibili nella barra alla base del blog.

La discussione sulla negativita' del digitale e' assolutamente infondata da questo punto di vista, anche se e' fondamentale fare una precisazione: la malleabilita' delle immagini e la realizzazione di situazioni impossibili, da un lato diminuiscono le capacita' tecniche del regista che puo' permettersi una piu' celere fase di produzione per concentrarsi maggiormente su quella di post-produzione, dall'altro accresce la componente creativa la quale non trova piu' barriere fisiche o di costi, ma puo' liberamente esprimersi.

Il problema di fondo, che rende ancora questi geniali corti e video sconosciuti algrande pubblico e' la completa mancanza di un mercato e di canali distributivi di massa come festival e concorsi. Attualmente sono largamente visualizzati su YouTube, ma solo perche' caricati da semplici consumatori incapaci di promuoverli correttamente se non con il loro stesso passaparola.

Altre piattaforme cercano di dare spazio a questa nuova forma d'arte, come "Devianart.com", ma rimangono fortemente di nicchia. Sebbene qualcuno potrebbe obiettare che questi prodotti non sono effettivamente mass market, ma compatibili solo con alcune forme di distribuzione, sbaglia! Basti semplicemente citare le 2.000.000 di persone che hanno visualizzato l'episodio II, citato sopra, su YouTube; uno dei filmati piu' visualizzati di sempre.

C'e' un mercato, c'e' un audience, tutto sta nel trovare aziende cinematografiche operanti nei canali secondari che diano spazio a questa dirompente forma d'arte di modo da riconoscere il valore a questi artisti che davvero stupiscono nella loro fantasia, innocenza e meticolosita'.

Come Dio Comanda - Paolo Mereghetti


Da sinistra Elio Germano nei panni di «Quattro formaggi» e Filippo Timi (Il padre «adottivo)
Da sinistra Elio Germano nei panni di «Quattro formaggi» e Filippo Timi (Il padre «adottivo)
Il tema delle «colpe» dei padri e dei «rimpianti» dei figli è presente da sempre nell’opera di Gabriele Salvatores, a volte solo in negativo (come nella trilogia generazionale degli inizi) a volte come una delle possibili sottotrame (come in Sud). Da un po’ di film a questa parte, invece, quel tema ha preso sempre più spazio, fino a diventare una delle linee di forza dell’ispirazione: importante in Amnèsia e Quo vadis baby?, centrale in Io non ho paura, totalizzante in Come dio comanda, in uscita oggi.

Ispirato a un romanzo fluviale di Niccolò Ammaniti, il film ne espunge molti personaggi e avvenimenti per concentrarsi sul tormentato rapporto di Rino Zena (Filippo Timi) col figlio vero Cristiano (Alvaro Caleca, al suo esordio) e quello «adottivo » Quattro Formaggi (Elio Germano). Il primo è un adolescente cupo e ombroso, succube verso il genitore di cui ha assorbito il vitalismo apocalittico e oltranzista; il secondo è un ex compagno di lavoro di Rino, menomato da un incidente sul lavoro che l’ha fatto regredire a uno stato para-infantile. Il terzetto vive in un paese montano senza nome del Nord-Est italiano, ognuno rabbiosamente alle prese con i problemi quotidiani: Rino alla ricerca di un lavoro che non trova e che vede sparire ogni giorno di più per la concorrenza di «negri e slavi»; Cristiano nel tentativo di mascherare la sua vera anima e le sue vere idee di fronte a insegnanti e compagni da cui si sente distantissimo; e Quattro Formaggi all’inseguimento di un suo mondo di fantasie e desideri che carica di troppe aspettative.

Gabriele Salvatores
Gabriele Salvatores
Salvatores, che ha scritto la sceneggiatura con Niccolò Ammaniti e Antonio Manzini, salta di getto qualsiasi tipo di mediazione sia sociologica che psicologica. Non sappiamo niente del passato di Rino e Cristiano né della «fine» della madre, così come Quattro Formaggi ci viene presentato senza altri legami familiari che non quelli dei due Zena. E fin dall’episodio del Suv e della motoretta che ne impedisce il parcheggio, i rapporti sociali tra le persone sembrano essere costruiti solo sulla sopraffazione e la violenza. Un mondo senza anima e un’umanità senza passato, dove (un po’ troppo simbolicamente) chi è strambo raccoglie oggetti nelle discariche e chi teorizza il razzismo e dipinge gigantesche svastiche sui muri di casa non può che divertirsi a sparare tra le cave di ghiaia.

C’è come un sovraccarico di disvalori, un incupimento eccessivo del quadro che può trovare una giustificazione in certi fatti di cronaca ma che nella logica del racconto cinematografico finisce per sembrare eccessivo, fin troppo sgradevole, volutamente esasperato, così da togliere (e non si capisce perché) ogni possibilità di immedesimazione con qualcuno dei protagonisti. In questo modo, l’inevitabile dramma che scoppia in una notte troppo piena di metafore (lampi, pioggia, fango, sentieri solitari) rischia di non appassionare e di essere vista come l’epilogo «inevitabile» di fronte ai comportamenti di tre emarginati «destinati» alla tragedia.

Nel film ogni personaggio si comporta come da manuale: Quattro Formaggi confonde tragicamente una ragazza (Angelica Leo) con l’oggetto delle sue fantasie erotiche, Rino mescola ancora una volta rabbia e paternalismo (vuole aiutare l’amico ma finisce per restare, involontariamente, coinvolto) e il piccolo Cristiano si sforza come sempre di conciliare senso del dovere e senso di obbedienza, bisogno d’affetto e paura reverenziale.

Germano interpreta un giovane che dopo un incidente sul lavoro regredisce a uno stato para-infantile
Germano interpreta un giovane che dopo un incidente sul lavoro regredisce a uno stato para-infantile
Ma al di là dell’indubitabile abilità tecnica che permette a Salvatores (e al direttore della fotografia Italo Petriccione e al montatore Massimo Fiocchi) di costruire una scena lunga quasi mezz’ora tra il buio delle notte e il fango di un temporale senza che lo spettatore ne provi stanchezza, tutto sembra troppo «significativo » (e un po’ prevedibile) per emozionare davvero. Proprio come la parentesi «erotica» (l’avventura notturna del padre con una occasionale conquista) o quella «sociologica » (il rabbioso discorso del padre al funerale della figlia), troppo programmaticamente cariche di significato perché lo spettatore in qualche modo non se le aspetti e non le metabolizzi velocemente. E questo nonostante l’impegno di tutto il cast, convincente soprattutto quando non sottolinea eccessivamente la solitudine e il dolore che affligge ogni personaggio.

Così la scelta di adeguare completamente stile e narrazione a un codice realistico (senza per esempio gli squarci favolistico-ecologici che spezzavano la tensione di Io non ho paura) finisce per schiacciare tutto — la storia di un delitto di provincia, il ritratto di tre personaggi senza speranza, il quadro di una società egoistica e violenta—sotto una cappa di disperazione e di sociologia dove tutto sembra preda di un «male» metafisico e indistinguibile, troppo apocalittico quando accenna a un mondo ostile e vendicativo o superficialmente assolutorio quando invece si chiude solo sul rapporto tra padre e figlio.

Paolo Mereghetti
12 dicembre 2008

Ridley Scott - Nessuna Verità


Che il regista Ridely Scott non fosse più quello di "Alien", di "Blade Runner" e dei "Duellanti" lo si era già capito dal "Gladiatore" del 2000. Ma le aspettative legittimamente alte per il suo nuovo film sono state per l'ennesima volta deluse da una retorica di narrazione e da un modaiolo sentimentalismo anti americano che trasformano il suo nuovo film, "Nessuna Vertità" in un povero film di denuncia.

Il film è stato tratto dal romanzo di David Ignatius, giornalista del Washington Post esperto del mondo medio orientale, ed adattato dallo sceneggiatore William Mohan, lo stesso che ha fatto vincere Martin Scorsese l'oscar con il film "the Departed". Sfortunatamente, anche se ci si poteva aspettare un film del medesimo genere, il risultato è immensamente distante in ogni suo dettaglio a partire dalla colonna sonora.

Roger Harris (Di Caprio) è un agente della CIA in incognito che cerca di catturare in Giordania, Al Saleem, un pericoloso terrorista . Deve, però, vedersela con Ed Hoffman (Crowe), il suo manipolatore boss in costante collegamento telefonico da Washington e col fin troppo presente Hani (Mark Strong), capo dei servizi segreti giordani. Ognuno ha il suo piano e diversi modi per realizzarlo.

Scott dimentica completamente l'analisi del personaggio di Blade Runner e sopratutto dei Duellanti, che nel film è particolarmente assente mostrando i tre protagonisti privi di un'anima e di una chiara personalità. Il più delineato è l'agente Hoffman con un discreto Crowe anche se troppo sadico nel suo essere indifferente e patetico nel suo sarcasmo. Divertenti involontariamente gli altri due: Hani è più americanizzato che mai con una vaga somiglianza ad Andy Garcia, mentre Di Caprio firma un tanto evidente quanto grave passo indietro rispetto a The Departed nel rappresentare un personaggio che richiama tanto quello interpretato in Blood Diamond (inutile quanto improbabile storia d'amore con una mussulmana) per il quale non sembra assolutamente tagliato.

Le scene da dimenticare sono troppe, partendo dall'amore tra Di Caprio e la bella mussulmana che sfocia in luoghi comuni e retorica (quando Di Caprio si trova ad affrontare la sorella per pranzo oppure quando per dimostrarli la sua caparbietà l'accompagna in un quartiere palestinese) fino ad arrivare alla scontata vittoria di Hani su Hoffman volendo sottolineare in modo superficiale e prevedibile la testardaggine e la spavalderia americana.

Il film è scorrevole ma nel complesso insipido e vuoto perdendo il confronto con tutti i suoi predecessori del genere, come Syriana. Aspettiamo ancora con speranza un ritorno trionfale di Scott, che da troppo tempo sembra aver perso colpi addirittura nei confronti del fratello Tony.

** (*****)

Big Fish - La favola come sogno eterno


Cinema come fantasia o cinema come realtà? Questo è un interrogativo che ha diviso i più grandi cineasti di tutti i tempi, a partire dagli albori, quando, nel 1900 esisteva già uno scontro di idee tra i fratelli Lumiere che volevano e seguivano un cinema documentaristico, e Melies il regista che, per primo, diede un volto favolistico alla settima arte.
Ebbene “ Big Fish” il nuovo film di Tim Burton, attualmente nelle sale, sembra seguire l’ interpretazione Meliesiana, ovvero cinema come evasione, cinema come favola e storia ben più piacevole della realtà nella quale tutto segue i canoni della razionalità. Con rigore onirico Burton sostituisce agli eroi mucciniani e ozpetekiani impregnati della stessa tristezza che caratterizza i nostri dubbi esistenziali , personaggi mitici, innocenti e ingenui ( Il gigante, il lupo mannaro, le gemelle siamesi) ,che per le loro particolarità in un certo senso mostruose sarebbero classificati come reietti della società nella realtà razionale ma che nella favola sono proprio le loro nefandezze a inserirli nei canoni della normalità, a farli protagonisti di un mondo fantasioso dove le loro diversità sono disegnate dal regista con tanta ingenuità da renderli amabili e non mostruosi.
Il film può riassumere, a mio parere, il significato di cinema: Il bisogno di evasione, l’importanza della fantasia, il credere ancora possibile sognare a occhi aperti un mondo dove morire è come nascere( Non a caso il vecchio Ed Bloom muore là dove era cominciata la sua fantasia) dove il male è come il bene ( Il poeta fallito che rapina una banca agisce con una ingenuità disarmante), e dove amare è come odiare( Ed Bloom e protagonista di tutte le azioni eroiche della città sotto gli occhi gelosi del suo migliore amico, a cui soffia sul finale anche la ragazza); dove insomma tutti i sentimenti opposti si fondono in uno unico che diventa l’elemento di una vita fantastica. Ed è questo che significa il cinema, proprio il sedersi sulla poltrona a luce spenta a guardare eroi e personaggi che non rispecchiano la nostra realtà ; dunque non deve essere una trasposizione di noi stessi sullo schermo, perché come va la nostra vita, com’ è la realtà non abbiamo bisogno di vederlo nelle sale perché il mondo e la vita sono il nostro schermo e noi i protagonisti. Davanti ad un film abbiamo bisogno di sentirci diversi, abbiamo bisogno di sentire cosa significa parlare con un gigante, lanciare un bastone a un uomo lupo, organizzare la fuga dal Vietnam con due ragazze vietnamite siamesi; insomma abbiamo bisogno di vedere tutto quello che nella realtà non potremmo o che in fin dei conti non vorremmo vedere perché ci spaventerebbe; ma se c’è una cosa che il cinema ci ha insegnato è che la finzione non fa e non deve far paura, ma può colpire dritto al cuore ricordandoci che un tuffo nella più fanciullesca delle favole è un punto necessario per una esistenza eterna, perché, com’è detto nel film, è raccontando storie che l’uomo ottiene l’immortalità.
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Alessandro